venerdì 24 aprile 2015

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I delitti di omofobia e di transfobia e le inquietudini giuridiche

di Ferrando Mantovani, 16 ottobre 2013.


La proposta di legge (Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia), nel testo approvato dalle Commissioni della Camera dei deputati, ha integrato l’art. 3 della l. n. 654/1975, che, se non andiamo errati, recita così:

«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione dell’art. 4 della convenzione, è punito: a) con la reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o fondati sull’omofobia o sulla transfobia».



La proposta ha sollevato e continua a sollevare profonde inquietudini, non, ovviamente, sotto il profilo delle condivisibili intenzioni di offrire una doverosa tutela delle persone, qualunque sia il loro orientamento sessuale (salvo gli insuperabili limiti della violenza e degli abusi su soggetti fragili); ma per gli strumenti giuridici utilizzati per lastricare queste buone intenzioni. E per le seguenti ragioni:

  • A) non tanto o soltanto, perché la proposta di legge (come del resto buona parte dell’incessante produzione legislativa penale con complicatorie sovrapposizioni successive) è ritenuta da più parti, e non a torto, non strettamente necessaria, essendo sufficiente a tutelare ogni persona contro i deprecabili atti di violenza, di offesa, di discriminazione per ragioni di orientamento sessuale, il ricco armamentario penale dei delitti di percosse, di lesioni, di omicidio, di minacce, di violenza privata, di atti persecutori, di maltrattamenti, di ingiuria, di diffamazione, di discriminazione, in particolare in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; tutte aggravate dalla circostanza dei motivi «abietti», di cui all’art. 61 n.1 c.p.;
  • B) quanto e soprattutto, perché tale proposta di legge presenta un’inquietante intrinseca pericolosità, quale vulnus ad irrinunciabili principi di civiltà giuridica, in quanto incentrata non su elementi costitutivi di tipo descrittivo o naturalistico, facenti riferimento a realtà individuabili con sufficiente sicurezza. Bensì su elementi costitutivi di natura emozionale, quali l’«omofobia» e la «transfobia», come tali del tutto vaghi, indeterminati e indeterminabili nella loro portata applicativa; nonché sulla indeterminatezza del concetto di «discriminazione»;
  • C) perché la suddetta proposta di legge apre, conseguentemente, spazi estremamente ampi alla discrezionalità del giudice e ai suoi possibili soggettivismi (personologici, ideologici, caratteriali), e a possibili decisioni giurisprudenziali opposte: in violazione dei principi, costituzionalizzati, di legalità-tassatività e di eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. E particolari inquietudini hanno già sollevato le applicazioni dell’art. 3/1a della l. n. 654/1975 da parte della stessa Corte di cassazione nelle due sentenze della Sez. I, n. 47984 del 22/11/201, e della Sez. IV, n. 41819, del 10/7/2009 (nota 1);
  • D) perché ci si chiede, da più parti, e con crescente preoccupazione, se il prevedibile esito della proposta di legge (se approvata), stante la sua indeterminatezza, sia quello di perseguire penalmente, in quanto atti di discriminazione fondati sulla omofobia, anche il sostenere l’inammissibilità del matrimonio omosessuale, l’esigenza dei bambini di avere un padre e una madre, il divieto di adozione di bambini da parte delle coppie omosessuali, il formulare giudizi di disvalore degli atti omosessuali sulla base delle Sacre Scritture, della Tradizione della Chiesa cattolica e del pensiero di altre religioni; il semplice citare pubblicamente passi evangelici sulla sodomia; il dibattere se l’orientamento sessuale sia modificabile o immodificabile e se la modificazione sia un’affermazione scientificamente fallace o meno; l’applicare a persone omosessuali, che liberamente lo richiedano, le c.d. terapie riparative per correggere l’orientamento sessuale o considerare meritevole di aiuto il disagio esistenziale di cui soffrono certi omosessuali. Con la conseguente violazione dei diritti, costituzionalizzati, della libertà di manifestazione del pensiero, della libertà religiosa e della libertà di educazione dei genitori verso i figli, comprendente anche l’educazione sessuale (nota 2);
  • E) perché l’ulteriore diffondersi del «male oscuro» dell’omofobia viene non contrastato, ma incentivato, e nel modo peggiore, con gli atteggiamenti di vituperio, di intimidazione, di arrogante intolleranza, di minacce o di attivazione di azioni penali verso i pensieri divergenti, di cui si ha un crescente sentore; anziché favorito attraverso un confronto ed una discussione, senza forzature, e la proposizione di modelli educativi ispirati al rispetto di ogni persona come tale, a prescindere dagli orientamenti sessuali;
  • F) perché ci troviamo di fronte non ad un «diritto penale conservativo», di tutela di specifici beni giuridici, ma ad un «diritto penale propulsivo», usato cioè come strumento per l’imposizione da una diversa visione sociale, per creare nuova sensibilità, con una funzione c.d. di moralizzazione; finalità che sono state sempre stigmatizzate dalla dottrina penalistica liberaldemocratica e laica;
  • G) perché è quanto mai dubbia l’effettività generalpreventiva di una tale legge, come attestano i periodici ed infruttuosi inasprimenti sanzionatori in materia di violenze sessuali, di pedoprostituzione, di pedopornografia, di atti persecutori, di omicidi e di lesioni personali, causati da gelosia o da utenti della strada sotto l’effetto di sostanze stupefacenti od alcoliche, e più in generale la ininterrotta ed infruttuosa produzione legislativa penale. E ciò per l’elementare ragione che anche la criminalità delle discriminazioni e l’azione di contrasto non sono un problema a sé stante, ma soltanto uno specifico aspetto del più generale problema (ed ivi va inquadrato) della criminalità e della politica criminale, rispetto al quale assistiamo ad una delle più rilevanti contraddizioni della nostra contraddittoria epoca: la lamentazione collettiva degli effetti criminali ed il potenziamento delle cause criminogene.

E si potenziano le cause criminogene, perché si disattendono le tre neglette leggi fondamentali della criminologia (che valgono anche per gli atti discriminatori):
  • 1) che esiste un rapporto di proporzione inversa tra condotta antisociale e validi controlli sociali (religiosi, morali, familiari, scolastici, associativi, democratici, amministrativi, giuridici e penali), nel senso che il numero di coloro che pervengono al delitto cresce col decrescere di tali sistemi normativi di controllo;
  • 2) che esiste un rapporto di proporzione inversa tra controlli socio-culturali e controlli penali, in quanto alla attenuazione dei primi cerca di supplire l’estensione e l’irrigidamento dei secondi. Come sta a dimostrare la nostra recente storia (come quella di altri paesi, Stati Uniti in testa), ove il progressivo smembramento delle controspinte socio-culturali rispetto al crimine (attraverso la sostituzione ad un sistema di valori anticrimine di un sistema di disvalori criminogeni, costituito da una miscela di culture, di pseudoculture, di subculture e di prassi nichilistiche) è stato, parallelamente, seguito da un aumento quantitativo e da un peggioramento qualitativo del diritto penale; anche per dimostrare la sollecitudine della classe politica nel combattere certe forme di criminalità e nel rispondere alla richiesta dell’elettorato o di certe potenti lobby;
  • 3) che, in seguito allo smembramento del primario sistema di controlli socio-culturali e, quindi, della ferma ed inequivoca disapprovazione sociale delle condotte antisociali, l’unico sistema di controllo resta il diritto penale, che dalla sua connaturale funzione sussidiaria di extrema ratio assurge ad unica ratio. Ed in questa sua «crisi di solitudine», il diritto penale, pur se irrinunciabile, rivela la sua inadeguatezza a contrastare il duplice fenomeno dell’aumento quantitativo della criminalità (specie della «criminalità diffusa», che incide più direttamente sulla qualità della nostra vita quotidiana) e del peggioramento qualitativo della criminalità, sempre più immotivatamente e sproporzionatamente violenta, crudele, sanguinaria, spregiudicata, irridente, precoce-minorile ed anche di importazione.
Sicché le moderne società si trovano di fronte ad una drastica alternativa (che anche i Parlamenti legiferanti non dovrebbero mai dimenticare):
  • 1) o ripristinare il primario sistema dei controlli socio-culturali, sostituendo all’attuale sistema di disvalori criminogeni un sistema di valore anticrimine, incentrato non più sulla degenerazione della «cultura dei diritti» nella «caricatura dei diritti propri», tendenzialmente illimitati, ma sulla conversione della cultura dei diritti anche nella «cultura dei doveri», volta a fare emergere nell’uomo la parte migliore e non la peggiore. Operazione che richiede una profonda inversione culturale, assai improbabile finché persiste la diffusa e nichilistica «inappetenza per ogni sistema di valori»;
  • 2) oppure amaramente rassegnarsi ad un incremento quantitativo e a un peggioramento qualitativo della corruzione, del disordine, della disgregazione sociale, della criminalità (compresa la criminalità delle discriminazioni). Perché vale sempre l’eloquente monito che «ogni società ha la criminalità che si merita», che la segue come la propria ombra. E la propria cattiva coscienza.
Ed in attesa del suddetto miracolo, sempre possibile, e con la spes contra spem, resta sempre auspicabile il «riposo del legislatore», preferibile ad un legiferare frenetico e scomposto, ideologico e nichilistico, frutto di una persistente confusione tra l’«agire» e l’«agitarsi».



Ferrando Mantovani è: professore emerito presso l'Università di Firenze, già ordinario di Diritto Comparato e Penale nella Facoltà di Giurisprudenza.



(nota 1) Per i rilievi critici, v. Giacomo Rocchi (magistrato di Cassazione), «Omofobia, a condannare ci penserà la Cassazione», in La Nuova Bussola Quotidiana del 28 agosto 2013, al link http://www.lanuovabq.it/it/articoli-omofobiaa-condannareci-pensera-la-cassazione-7164.htm.

(nota 2) E merita ricordare, fra l’altro, come l’«ossessione persecutoria» delle discriminazioni sia riuscita ad operare la profonda mutazione della sanzione del lavoro gratuito di pubblica utilità:
a) in un lavoro obbligatorio e, quindi, in un «lavoro forzato», dimenticandosi che negli Stati liberaldemocratici (a differenza di ben noti Stati totalitari) tale sanzione può essere e viene applicata solo su richiesta dell’imputato, per evitare che essa venga, altrimenti, a configurare una sorta di «lavoro forzato», in violazione dell’art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
b) in una pena accessoria cumulabile con la pena della reclusione, scordandosi che essa è stata concepita, è nata ed è stata introdotta nei vari ordinamenti giuridici come sanzione sostitutiva della pena detentiva. Per tacere poi che tale sanzione nei paesi ad economia liberale ha sempre avuto scarsa fortuna per le non poche difficoltà pratiche di attuazione.

Le domande di adozione sono già troppo numerose. I ministri Fassino e Turco: «Aumentiamole»

Le domande di adozione sono già troppo numerose. I ministri Fassino e Turco: «Aumentiamole»

 

Prospettive assistenziali n.130, aprile-giugno 2000.


In materia di adozione continuano ad essere numerose le inesattezze riportate dai giornali. Il Messaggero è arrivato a pubblicare il 12 giugno 2000 in prima pagina e su cinque colonne il titolo “Figlio negato a 85mila famiglie”, come se i Tribunali per i minorenni avessero a loro disposizione 85mila bambini dichiarati adottabili pronti per essere inseriti in famiglie adottive.

In realtà, da moltissimi anni, e precisamente dalla fine degli anni ’60, il numero delle domande di adozione è sempre stato di gran lunga superiore ai bambini che possono essere adottati in Italia e all’estero.

Negli ultimi cinque anni e cioè dal 1995 al 1999, sono stati dichiarati in stato di adottabilità, 6.471 minori (nota 1). Nello stesso periodo, le domande di adozione sono state in totale 60.545 (nota 2) così ripartite:



Dunque, a fronte di 6.471 minori dichiarati adottabili (nota 4) c’erano richieste di adozione presentate da 60.545 coniugi. Pertanto, senza alcuna altra alternativa possibile, a 54.074 coppie non è stato e non sarà affidato alcun minore a scopo di adozione.

Per quanto riguarda le domande per l’adozione internazionale, nel quinquennio 1995-1999 ne sono state presentate 40.563. Nello stesso periodo i provvedimenti concernenti l’affidamento preadottivo sono stati 12.424. A questa cifra vanno aggiunti i 205 provvedimenti efficaci come adozione, nonché un certo numero di procedimenti pendenti, valutabili in 2.000.
In sostanza, a fronte di 40.563 domande presentate, di cui sono state respinte 4.479, le adozioni realizzate sono state 12.629, mentre le pratiche in corso di esame sono — come abbiamo visto — circa 2.000.
Dunque, sono state oltre 21.000 le coppie autorizzate all’accoglienza di un minore straniero, che non hanno potuto realizzare la loro disponibilità all’adozione, non per motivi attribuibili alle leggi vigenti o a ritardi dei servizi sociali o dei Tribunali per i minorenni, ma — ancora una volta — per la mancanza di minori adottabili.

Questa mancanza è dovuta sia alle restrizioni dei paesi di provenienza dei fanciulli, sia alle richieste ivi presentate non solo dagli italiani, ma da coppie di tutti i paesi economicamente sviluppati. È, inoltre, assai probabile che, a seguito della ratifica della Convenzione de L’Aja, il numero dei minori stranieri adottabili, si riduca in misura notevole.

Pertanto, fra le adozioni nazionali e quelle internazionali, nel quinquennio 1995-1999 sono state complessivamente ben 75 mila (nota 5) le coppie che non hanno avuto un bambino in adozione a causa della mancanza di minori adottabili e per nessun altro motivo.

L’irresponsabile iniziativa dei Ministri Fassino e Turco

Ogni anno, dunque, sono oltre 15mila le coppie che restano irrimediabilmente deluse dall’adozione, non avendo il bambino, magari da tanto tempo desiderato e a volte idealizzato (nota 6).

Invece di introdurre modifiche alla legge 184/1983 in grado di ridurre il malcontento, i Ministri della giustizia, Piero Fassino, e per la solidarietà sociale, Livia Turco, hanno promosso la presentazione da parte del Governo di un disegno di legge in appoggio delle seguenti norme (nota 7):

  1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni fra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto, i quali devono essere ritenuti affettivamente idonei e capaci di educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare.
  2. L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottato.
  3. I limiti di cui al secondo comma possono essere derogati previa valutazione, caso per caso, da parte del Tribunale per i minorenni della idoneità affettiva e della capacità di educare, istruire, mantenere i minori di coloro che intendono adottare, qualora dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore.
  4. Sono consentite ai medesimi coniugi più adozioni anche con atti successivi.
  5. Costituisce criterio preferenziale ai fini dell’adozione l’aver adottato o aver fatto richiesta di adottare fratello o sorella germano o anche unilaterale, del minore di cui si richiede l’adozione.

In sostanza, preso atto che le domande di adozione sono troppo numerose rispetto ai bambini adottabili, i suddetti Ministri — forse alla facile ricerca di consensi da parte di coloro che pensano solo ai loro interessi e non hanno alcuna motivazione sociale — hanno deciso di aumentare il numero delle richieste, con l’inevitabile conseguenza di incrementare in seguito la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni.
E’ questo, e sarà solo questo, il risultato dell’elevazione della differenza di età fra gli adottanti e gli adottandi, dagli attuali 40 anni ai 45 proposti dal Governo.

Questa iniziativa, assolutamente irrazionale, non determinerà l’adottabilità di un solo minore in più rispetto agli attuali, mentre accrescerà inutilmente il lavoro dei servizi sociali e dei Tribunali per i minorenni e delle relative Procure, obbligati a valutare l’idoneità di coppie che non potranno avere un bambino in adozione a causa della mancanza di minori dichiarati o dichiarabili in stato di adottabilità.

Nello stesso tempo, si verificheranno conseguenze molto negative: gli ultraquarantenni (che attualmente possono adottare fino quasi al compimento del 58° anno d’età) premeranno per ottenere in adozione bambini piccolissimi (le richieste più numerose, da sempre, sono rivolte ai neonati), nonostante che sia evidente a tutte le persone di buon senso che, a parità delle altre condizioni (accettazione reale di un bambino procreato da altri, capacità educativa, ecc.), sia certamente preferibile l’adozione dei fanciulli da parte di coppie giovani. Questa situazione potrebbe anche determinare una minore richiesta dei minori grandicelli.

Inoltre, la formulazione del 3° comma dell’articolo consente alle coppie, anche educativamente inidonee, di precostituire le condizioni per ottenere dal Tribunale per i minorenni l’adozione di minori inseriti in famiglia con motivazioni di vario genere (studio, vacanza, cure sanitarie, ecc.).

Al riguardo, sarebbe necessario, per evitare questa situazione di mercato fai da te, che venissero escluse dalla possibilità di adottare le coppie che abbiano realizzato l’inserimento di minori ai fini di ottenerne in seguito l’adozione.
Il link per questo articolo è http://www.fondazionepromozionesociale.it/PA_Indice/130/130_le_domande_di_adozione.htm

Note:
  1. Le dichiarazioni di adottabilità sono state 1.148 nel 1995, 1.359 nel 1996,1.440 nel 1997, 1.278 nel 1998 e 1.246 nel 1.999.
     
  2. Sono state calcolate le domande pendenti all'inizio del 1995, a cui sono state aggiunte quelle presentate dal 1996 al 1999.
     
  3. La mancata rispondenza tra le pendenze alla fine dell'anno e all'inizio dell'anno successivo è causata dalla revisione delle pendenze da parte di alcuni Tribunali per i minorenni.
     
  4. Vi è da considerare che una quota delle dichiarazioni di adottabilità resta senza seguito, trattandosi di bambini con gravi handicap e grandicelli. Secondo quanto è stato pubblicato nel volume "Pianeta infanzia: questioni e documenti" edito dal Centro nazionale di documentazione ed analisi sull'infanzia e l'adolescenza di Firenze, risulta che solo il 65,5 per cento dei minori dichiarati in stato di adottabilità sono accolti in adozione. Cfr. 'Un terzo dei minori dichiarati adottabili resta senza famiglia', Prospettive Assistenziali, n.126. Già attualmente, questi minori potrebbero essere adottati in base alle norme della legge 184/1983, ma sono ampiamente insufficienti le disponibilità non solo dei coniugi, ma anche quelle delle persone singole alle quali l'adozione è consentita, nei casi particolari, dall'art.44 della legge sopra citata. Sarebbe anche necessario un maggiore impegno da parte delle istituzioni. Dove i Tribunali per i minorenni ed i servizi sociali sono attivi, vengono realizzate adozioni anche di bambini con gravi handicap o grandicelli.
     
  5. La cifra è indicativa, anche se non molto diversa da quella reale, in quanto i dati statistici disponibili non consentono raffronti precisi. Mancano, altresì, i dati relativi alle coppie che hanno presentato contemporaneamente domanda di adozione nazionale e internazionale. In ogni caso le possibili differenze non cambiano le valutazioni fatte in questo articolo.
     
  6. Occorre anche tener conto dei parenti, degli amici e dei conoscenti, i cui giudizi contribuiscono ad influenzare negativamente l'opinione pubblica nei confronti dei Tribunali per i minorenni e dei servizi socio-assistenziali.
     
  7. Si tratta dell'articolo 7 approvato nelle scorse settimane dalla Commissione speciale per l'infanzia del Senato.

 

Gender: il cervello è maschio o femmina

Gender: il cervello è maschio o femmina

dall'intervista di Anna Pelleri al prof. Massimo Gandolfini
www.aleteia.org, 9 giugno 2014

Il neurochirurgo Massimo Gandolfini chiarisce alcuni aspetti dell'ormai nota questione gender

Il gender, termine ormai noto ai più, è al centro di grandi dibattiti sia scientifici che culturali. Abbiamo chiesto al prof. Massimo Gandolfini, neurochirurgo, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione Poliambulanza di Brescia e vicepresidente nazionale dell’Associazione Scienza&Vita, di chiarire il significato e l’origine di questa ideologia e il ruolo del cervello nella definizione del genere.

Prof. Gandolfini, potrebbe ricordarci l'origine della teoria del gender? 

Dal punto di vista strettamente storico, il termine “gender” trova  la sua genesi più remota nel lavoro di Sigmund Freud, apparso nel 1920, con il titolo “Psicogenesi di un caso di omosessualità nella donna”, in cui  - per la prima volta – si pone il tema della differenza fra “gender role” e “gender identity”. Sul piano dell’elaborazione culturale, l’ideologia del gender si propone a partire dagli anni 50/’60 ed è caratterizzata da tre “ondate”, che si susseguono e si integrano fra loro.

La prima ondata: la “nurture theory”

La “nurture theory”, o teoria della prevalenza della cultura sulla natura, fu propugnata da John Money, direttore del dipartimento di sessuologia del John Hopkins Insitute di Baltimora. Negli anni ’60 cominciò ad imporsi il “dogma” che si diventa uomo o donna non per determinazione biologica sessuale, ma per imposizione di “stereotipi” di genere. Detto in altre parole, un maschio diventa uomo perchè condizionato da categorie pedagogiche e culturali che gli impongono di rivestire il ruolo sociale proprio dell’uomo (giocare a pallone, giocare con armi, fare a botte con i compagni, ecc..).

Altrettanto vale per la femmina che viene condizionata per diventare donna. Ne consegue che modificando gli stereotipi di genere, si può modificare l’evoluzione culturale sia del maschio che della femmina, completando il lavoro attraverso tecniche medico-chirurgiche di “riassegnazione del sesso”. In questo contesto si inserisce la tragica “sperimentazione” condotta dal dottor Money sul piccolo Bruce, trasformato in Brenda, che si conclude con il suo suicidio, dopo una vita di disagio e travaglio indicibili.

La seconda ondata: il movimento femminista

La seconda “ondata” è legata alla storia del movimento femminista per l’emancipazione e l’uguaglianza della donna, soprattutto a partire dagli anni ’70. Possiamo citare un nome per tutti: Simone de Beauvoir, con la sua lotta per il diritto al divorzio, la libertà sessuale realizzata attraverso la contraccezione e il diritto all’aborto, al fine di liberare la donna dal condizionamento della maternità. Nel 1980, Adrienne Rich produce un testo considerato il manifesto del lesbismo, proposto come lo strumento vincente per la lotta di liberazione dal maschio, e conia la “famosa” sigla LGBT, proponendo quattro generi di identità e correlato orientamento sessuale.

La terza ondata: la “non identità”

Possiamo localizzare la “terza ondata” agli inizi degli anni ’90, con Judith Butler, femminista lesbica e autrice di “Gender Trouble”, atto fondativo del femminismo radicale, nel quale si propone l’ideologia della “non identità” all’interno di una società globale fluida e liquida, senza nessun punto fisso di riferimento, che apre la strada al “nomadismo” di Anne Sterling (1993). In questo contesto, nasce il genere “queer” – strano, variabile, modificabile – che va ad integrare il già citato acronimo LGBTQ.

C’è differenza tra identità sessuale e genere? 

Vorrei precisare che è più corretto parlare di identità “sessuata”, piuttosto che “sessuale”. Con la prima denominazione, infatti, si sottolinea che l’appartenenza di sesso – maschio o femmina – non è un nostra scelta, bensì una realtà biologica che ci troviamo compiuta dalla nascita: ce la siamo trovata iscritta nella totalità del nostro corpo, cellule, tessuti, organi ed apparati. Questa è la differenza fondamentale tra identità sessuata e ideologia di gender: la prima è biologicamente determinata, la seconda è una scelta autonoma e individuale che prescinde totalmente dal dato di realtà rappresentato dall’appartenenza sessuata.

Lei è un neurochirurgo, il cervello è maschio o femmina?  Rimane tale al di là di interventi chirurgici, ormonali e psicologici atti a modificare il “genere” di una persona? 

Negli ultimi vent’anni abbiamo acquisito il principio che la sessuazione dimorfica (maschio/femmina) riguarda il nostro organismo nella sua totalità, cervello compreso. Oggi parliamo di “cervello sessuato” volendo intendere che maschio e femmina sono differenziati anche dallastruttura anatomica e dal funzionamento del proprio cervello. Fin dai tempi di Vesalio e di Leonardo da Vinci sapevamo che volumetricamente il cervello maschile è più grande di quello femminile (perdonate la precisazione necessaria per evitare “battute scontate”: la funzione non è proporzionale alla massa!), ma solo negli ultimi vent’anni abbiamo compreso che la differenza è anche di ordine anatomico e funzionale. In estrema sintesi, il cervello maschile è caratterizzato da una rigida “lateralizzazione” – le aree del linguaggio sono, ad esempio, rigidamente localizzate nell’emisfero sinistro; al contrario, nella femmina vi sono rappresentazioni anche nell’emisfero destro – e le connessioni interemisferiche – cioè i collegamenti fra i due emisferi – sono più sviluppate e numerose nel cervello femminile. Grazie a complesse indagini che studiano il funzionamento del cervello (soprattutto le tecniche del neuroimaging, quale la risonanza magnetica funzionale e la PET), abbiamo compreso quali sono le basi anatomofunzionali per spiegare il dato che la psicologia comportamentista fin dagli anni ’50 ci proponeva, e cioè che l’elaborazione del “pensiero” maschile (detto “pensiero lineare”) ha caratteristiche diverse rispetto al pensiero femminile (“pensiero circolare”). E’ proprio la maggiore ricchezza di connessioni fra i due emisferi che rende il pensiero femminile “multitasking” (capace, cioè, di aprire e gestire contemporaneamente più file), rispetto al maschile, in grado – invece – di gestire un solo file alla volta. La sessuazione cerebrale è iscritta tanto profondamente nel nostro corpo che non è modificabile con la terapia ormonale che viene utilizzata in ambito di terapia per riassegnazione sessuale (ad esempio, nei casi di “disforia di genere”): tutto il corpo è rimodellabile, ma non il cervello.